domenica 28 aprile 2013


Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. 
Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. 
Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri». 
[Gv 13,31-35] 

La gloria di Dio non è la gloria del mondo. Assunto quanto banale, quanto troppo spesso ignorato. Lo è così tanto se per i cattolici, oggi, il fine della vita è la realizzazione qui ed ora, delle loro aspirazioni, dei loro desideri. E certamente è cosa buona e giusta avere desideri, aspirazioni, sogni e passioni e non rinchiudersi in una vita passiva e vuota; ma quanto si ha la consapevolezza che essi non sempre, forse quasi mai, sono possibili? Quantomeno non nella loro pienezza. Assaggi, antipasti di una gloria futura: questo il destino terreno. Perché allora spendere energie per questi antipasti, rischiando, poi, di impedirci il resto del pasto? La gloria di Dio non è la gloria del mondo e nasce ed esplode laddove per il mondo è un fallimento: il tradimento. Gesù è glorificato perché quel tradimento Lo condurrà alla Croce. Noi oggi fuggiamo la croce, le nostri croci, e ci compromettiamo la gloria. Non si tratta di essere pessimisti, bigotti o quadrati, incapaci secondo la vulgata corrente, di godere la vita che Dio ci dona; si tratta, molto più sanamente, di essere realisti e in questa visione reale, cattolica, della vita, saper cogliere le gioie che ci vengono donate nel deserto, nell’aridità, nella quale siamo costretti a vivere. Perché è certo che le gioie ci sono, ma è altrettanto certo che ci sono le noie, le croci, le sofferenze. Il male. Chiudere gli occhi è da ipocriti, oltre che da pazzi. Si sanno apprezzare e godere le cose belle perché si sa che sono un’eccezione, non la normalità, non sono dovute. Gratuite e belle perché rare. Scrive Enrico Maria Radaelli: “Il fatto è che quella sofferenza qualcuno la deve fare, e la deve fare perché la deve offrire, perché il male non può andare perduto: il male, ogni singolo male, va redento, va riscattato, ossia non solo va raccolto e tramutato nel bene originale che era, ma, con l’avvento di Cristo, va fatto anche salire alla pienezza del bene divino e di bene divino riempirlo.” E qui sta l’amore, quello vero, insegnato e praticato da Cristo: l’amore che si dona completamente, anche a costo di soffrire l’umiliazione degli sputi, la frustrazione delle percosse, l’amarezza della sconfitta. Quell’amore che è tale anche se non riceve nulla in cambio, quell’amore che è tale perché non cerca il bene già fatto, ma prende su di se il male e lo converte in bene. Questa una missione di drammatica e fondamentale importanza che i cattolici, oggi, dovrebbero riscoprire e praticare: quella di accettare le sofferenze che gli capitano nella vita, anche le più banali e piccole. Farsi carico, poi, anche delle piccole sofferenze altrui. Non cercare la gioia, ma permettere che essa dilaghi togliendo territori al nemico. La luce non trova spazio nel mondo perché non c’è nessuno che si addentra nelle tenebre. Ringraziamo quindi, visceralmente, tutte le persone che si consacrano ad una vita contemplativa, di preghiera e sacrificio costante. Se oggi siamo ancora qui a parlare, a scrivere, pregare e amare e sì, anche peccare, è perché c’è chi, nel buio di un monastero di clausura o nell’ombra della propria quotidianità, prende su di se il male del mondo, perché ad altri sia risparmiato, e perché a molti, ignari, sia permesso di vivere felici.

1 commento:

  1. Prima di finire di leggere l'articolo ero arrivato a pensare, appunto, a tutte quelle persone che pregano nei monasteri e nei conventi di clausura, anche per i nostri peccati. Una vita spesa bene.

    Demetrio

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