mercoledì 19 giugno 2013

Don Enrico Finotti, nel suo Vaticano II. 50 anni dopo (Fede&Cultura) scrive:

“dobbiamo chiederci come fu possibile che un legittimo ricorso alla necessaria discussione e alla dimensione pastorale quali principi orientativi della grande riforma conciliare, abbia prodotto concretamente una sua così profonda crisi e una così facile deragliamento nell’attenuazione celebrativa dei riti. Ci si è letteralmente dimenticati di un’importante disposizione del Concilio:
1. Regolare la sacra Liturgia compete unicamente all’autorità della Chiesa, che risiede nella Sede Apostolica e, a norma, nel Vescovo.
2. In base ai poter concessi dal diritto, regolare la materia liturgica spetta, entro limiti determinati, anche alle competenti assemblee episcopali territoriali di vario genere legittimamente costituite.
3. Di conseguenza nessuno altro assolutamente, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché nella Liturgia (SC 22).
[…] Queste chiare indicazioni sono di fatto rimaste per molti lettera morta in quanto si è subito quel clima generale, tipico del postconcilio e che ha prodotto su vasta scala il fenomeno del paraconcilio. Anche l’attuazione della riforma liturgica ne è stata fortemente investita e in taluni alcuni casi letteralmente travolta. Si tratta del dissenso al magistero vivo della Chiesa. In realtà è questa la causa primaria e, per così dire, il ‘peccato originale’, che sta alla base di ogni deviazione dottrinale, liturgica e disciplinare, che in nome del Concilio ha divaricato da esso e ha imboccato i sentieri pericolosi della difformità e della rottura con la Tradizione della Chiesa”

Se tutto questo fosse vero, mi domando, perché, tanto per fare un esempio tra tanti, a un laico (omonimo dell’attuale Papa) si è permesso di fare della liturgia quel che voleva, legittimando poi, successivamente, con vari decreti di qualche Pontificio Consiglio, la sua legalità (rimango perplesso sulla santità)? Il ‘peccato originale’ non sarà piuttosto la desistenza dell’autorità per dirla con Amerio? Il Luganese scriveva: “Ora, il carattere singolare del pontificato di Paolo VI è la propensione a spostare l’officio pontificale dal governo alla monizione e, per adoperare i termini adoperati nella Scolastica, a restringere il campo della legge precettiva, la quale origina una obbligazione, e allargare quello della legge direttiva, la quale formula una legge ma non vi annette obbligazione di eseguirla. In questo modo il governo della Chiesa risulta dimidiato e, per dirla biblicamente, rimane abbreviata la mano di Dio (Isai., 59, 1). La breviatio manus può dipendere da più ragioni: o da una cognizione imperfetta dei mali, o da manco di forza morale, o anche da un calcolo di prudenza la quale non pone mano ai rimedi dei mali veduti, perché stima che così aggraverebbe i mali anziché guarirli. […] Questa breviatio manus ha certamente origine dal discorso inaugurale del Concilio che annunciò la rinuncia al metodo della condanna dell’errore e fu praticata da Paolo VI in tutto il suo pontificato. Egli si attenne come dottore alle formule tradizionali contenenti l’ortodossia, ma come pastore non impedì che corressero le formule eterodosse, pensando che da sé stesse si sistemerebbero in formule ortodosse conformi alla verità. Gli errori furono da lui denunciati e la fede cattolica mantenuta, ma la disinformazione dogmatica non fu condannata negli erranti e la situazione scismatica della Chiesa venne dissimulata e tollerata” [R. Amerio – Iota unum] Il problema, allora, non sta piuttosto nella rinuncia a punire? Perché questo aspetto viene taciuto? Certamente il male nasce dalla disobbedienza e dall’eresia, ma la crisi, e nello specifico la crisi attuale, nasce e si radica proprio da questa volontà (che poi diventa con il tempo incapacità) di non intervenire. L’eresia c’è sempre stata nella Chiesa, fin dalle sue origini. La differenza sta nel modo in cui vescovi e papi si sono ad essa opposti. C’è che si è speso, fisicamente e intellettualmente, contro di essa. C’è chi è morto, martire, per non aderire ad essa e difendere la dottrina della Chiesa. E oggi? Tutto questo non è minimamente immaginabile. L’eresia oggi viene coperta dall’ipocrita velo del termine politicamente corretto ‘diversità’. L’atteggiamento della Chiesa nei confronti dell’eresia e dell’eretico è mutato velocemente. Dalla fiera e intensa condanna si è passati ad evitare ogni sorta di rimprovero per non urtare nessuno. Da qui si è passati alla difesa dell’eresia, credendo che condannare l’eretico, in quanto diverso, significasse diventare razzisti. E siamo giunti al sostegno di essa. Sono della scorsa settimana le parole di Papa Francesco I che preferisce una Chiesa che sbaglia. Quale il passo futuro? Non saprei, mi sembra tetro e infernale già lo stato presente. Contro l’eresia non servono richiami ad un ritorno all’ortodossia. Questi non servono né a richiamare all’ordine l’eretico, né a salvaguardare la fede dei semplici. Perché l’eresia genera questo duplice danno: da un lato ferisce la dottrina della Chiesa; dall’altro attacca ferocemente la fede dei più piccoli. Perché essi non sono dottori della Chiesa, non sono a conoscenza di tutte le questioni teologiche. La loro santità si radica nel quotidiano vivere che non contempla lo studio intenso e profondo della dottrina della Chiesa. Essi amano Cristo, la Madonna e la Chiesa e si fidano dei suoi ministri. Se questi però la tradiscono con altri e nessuno li rimuove ecco che il tradimento diventa prassi e questa prassi diventa da esempio per tutti i fedeli. Ecco da dove nasce la confusione attuale. I vescovi, soprattutto quello di Roma, devono confermare nella fede, non sperare che le anime ad essi affidate sbaglino alla ricerca di non si sa che cosa. I Papi, invece, negli ultimi decenni, al massimo si sono prodotti in richiami all’ordine, di fronte ad un esercito ormai ammutinato. Il Papa non comanda più la Chiesa, per quanto è l’unico legittimato e sacramentalmente in grado di farlo. Questo perché i Suoi sottoposti, i vescovi e quindi i sacerdoti, fanno di testa propria. Consci del fatto che mai e poi mai verranno puniti, che timori dovrebbero avere? La differenza che passa tra un eretico e un cattolico è che il cattolico sa chi è il Papa, l’eretico no (se lo sa lo nega). L’eretico strumentalizza il Papa quando gli fa comodo e quando intralcia i suoi convincimenti disobbedisce. Il cattolico, invece, in coscienza vive una ferita dolorosissima, perché sa che la salvezza della Chiesa, quel ritorno all’ordine da molti auspicato, può avvenire solo dai suoi atti. Non ci salverà una conferenza episcopale. Nemmeno la somma di tutti i vescovi del pianeta. Il Papa ha un potere unico e specifico che nemmeno tutti i vescovi messi insieme possono sognare di avere. La Chiesa non è della maggioranza. La speranza è che il Papa intervenga e lo faccia in maniera cattolica. Da cattolici quali siamo, disprezzando l’eresia, non ci sostituiamo a nessuno e non realizziamo noi le riforme. Chiediamo che sia Chi di dovere a compierle. Nella difesa della fede.

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