giovedì 29 agosto 2013


Guardando il film Ci vediamo domani c’è questa scena significativa che parla, semplicemente e brevemente, della mitizzazione delle cose, della realtà. «La gente pensa in termini di mito» afferma il personaggio nel video. Ed è vero. Noi, un po’ per natura, un po’ per cultura, tendiamo spesso, troppo spesso, a mitizzare le cose. La cultura egemone oggi non aiuta, anzi, favorisce questa visione. Il perché è semplice. Seguire un mito ci rende consumatori. Un consumatore spende. E qualcuno ci guadagna. Ma oltre all’aspetto economico c’è anche un aspetto più grave, forse più sottile, ma profondamente legato all’altro, ed quello sintetizzato nella frase: «Tu sei quello che il mito vuole che sei. Uno schiavo, un ricattato, un illuso». Non guardare la realtà, non comprenderla, non viverla consci del fatto che esiste una verità che regge il mondo, porta a vivere in un mondo di sogni. Che se apparentemente è bello perché ci sottrae dall’atroce quotidianità del dolore, dall’altra però ci frega. Ci frega proprio perché è falsa. È una falsa visione delle cose. Eppure, non a caso, è quella dominante. Oggi come oggi, a livello cinematografico, di canzoni, di predicazione e di educazione quello che si fa passare è che per vivere meglio, per vivere bene, bisogna avere dei sogni, degli idoli in fin dei conti, da coccolare e conservare gelosamente, nei quali rifugiarsi quando la vita fa male. Ma quando la vita fa male? Quando non corrisponde ai nostri ideali, ai nostri desideri, ai nostri bisogni. E questo accade il più delle volte. Sia perché noi vorremmo sempre tutto, sempre tanto, sempre più di quel che abbiamo. Sia perché la vita, la storia di ognuno, non è quella serie di eventi commoventi, piacevoli e belli, che ci vogliono far credere. Non sto dicendo che la vita sia un male, che faccia schifo e che sarebbe meglio non vivere. Anzi! Sto dicendo però che la vita va presa per quella che è, realmente, non idealmente. Perché custodire un sogno va bene, perseguire un’ideale anche, non soccombere alle difficoltà soprattutto, ma allo stesso tempo si rischia di sottrarsi al reale per costruirsi un mondo ideale dove il dolore non possa entrare. È naturale ripudiare il dolore, ma non tutto ciò che è naturale è buono (scusate amici ambientalisti). Il dolore è parte integrante della vita dell’uomo. Uomo dispera di fronte al dolore. A meno che non accolga quella Verità che rende il dolore non una sconfitta, ma una grazia. Che non significa, come le prediche odierne insinuano, che tutto è bello, buono e piacevole. Ma significa che il bene, il bello, il vero, troppo spesso passa per una strada irta, dura, piena di sacrifici. Noi oggi le salite le evitiamo, c’è sempre un ascensore; i dolori li scartiamo, preferiamo i comfort. Dei sacrifici non ne parliamo. Le nuove generazioni, la mia compresa (della quale faccio perfettamente parte) non è in grado di sopportare un dolore, un fallimento, una ferita. Il dolore se c’è si cura, si deve eliminare. Accettare che una ferita rimanga non è contemplato. Infatti i giovani oggi crescono senza una spina dorsale. Difficilmente diventeranno uomini se non sono stati educati a rispondere a quella vocazione loro propria che è quella di morire per ciò in cui si crede, per ciò (e chi) si ama. Il successo della vita (perché la vita la si valuta in termini di successo) passa dalla realizzazione di qualcosa. È un grande, è un mito, colui che ha fatto qualcosa di grande, di mitico, di storico. Assistiamo quotidianamente a poveri ragazzi che cercano il successo, anche solo istantaneo, complice l’esperienza dei social network, in qualcosa di estremo, esagerato, unico. Poco importa se folle o assurdo. L’importante è esserci e appagare il mito di questa vita fatta di esperienze, di eccessi, di godimenti e soddisfacimenti. Ma la vita non è questo. La vita se ne frega dei miti e va avanti per il suo corso. E le bastonate quando arrivano arrivano, c’è poco da fare. La mitizzazione della vita è una fede, una religione, che ha il suo culto. Che richiede – guarda un po’ – dei sacrifici. Che il più delle volte, però, sono umani. Costano la vita. Ma non tanto nel senso che conducono alla morte (morire per la verità è martirio, è santità), quando che conducono alla disperazione, a una vita priva di senso, a una continua e forsennata ricerca di qualcosa che mai otterremo, perché irreale. Perché il continuo, esasperato, perseguimento del successo e del godimento, non consola, non appaga, ma svuota e uccide. Moralmente e fisicamente. «Il mito si mangia i sentimenti, il mito ti frega». Anche a livello di rapporti interpersonali la mitizzazione è imperante. Si deve perseguire il modello di ideale di vita, di vita di coppia. Magari prima la carriera e poi, se avanzano tempo, soldi e energie, anche la famiglia. “Peccato” però che ciò che sta nel cuore dell’uomo non è la carriera, ma un disperato bisogno d’amore (per parafrasare una nota canzone). L’uomo ha bisogno d’amore. E non lo trova nel lavoro o nel successo. Ma lo trova in un’altra persona. Per la quale decide di dare tutto. Per la quale decide di morire, anche di soffrire. Invece che di seguire modelli ideali (tipo quelli proposti nei film), bisogna seguire la realtà, quella vera, quella propria, non quella mitica. Solo così si realizza la vita. Ma non che si ottengono cose è successo. Questa non è un’altra strada per ottenere cose, anzi spesso è un’autostrada per perderle. Ma è la strada della verità. È l’armonia delle aspirazioni dell’uomo vero, non della sua imbecille caricatura. Non è amando e perseguendo un amore ideale che si vive, ma si vive amando l’amore e la vita reale. Che spesso è fallire, morire, perdere. Se si cerca sempre, solo e soltanto il successo, il godimento, il raggiungimento degli obiettivi, quasi sempre non si ama. Perché l’amore, anche quello per la vita o per la persona amata, non ha come cartina di tornasole il successo. Non ama chi ottiene. Ama chi ama. Che se può sembrare una frase inutile o solo accattivante, sta però a dimostrare che l’amore deve essere svincolato da un risultato, dall’ottenere qualcosa. Si ama perché così si assolve alla propria vocazione. Non si ama perché così si ottiene qualcosa. Non si ama nemmeno per ottenere qualcuno. Si ama perché si ama. Che non è mera istintività; è vocazione. È risposta a quella domanda d’amore. Nostra e di chi amiamo. Spesso la vita e l’amore ci paiono delle ingiustizie. Spesso vivere e amare è frustrante. Ed è vero. Ma è altrettanto vero che non tutte le frustate sono da evitare. Si pensi alla flagellazione subita da Cristo. Fu una grandissima e gravissima ingiustizia: si condannò e si frustò un innocente. Ma Gesù, modello reale (non ideale) d’amore, non le ha evitate, né rifiutate, né impedite. E ha amato. Non ottenendo, probabilmente, la conversione dei carcerieri o degli esecutori della pena. Ma le ha comunque subite. E ha vissuto. Ha vissuto la durezza di quei colpi, umanamente fallendo, non seguendo nessun mito e proprio per questo essendo un vero uomo.

Nessun commento:

Posta un commento