giovedì 31 ottobre 2013

C’è stato un ribaltamento, un rovesciamento, nella comprensione e nell’applicazione dei termini “conservare” e “consumare”, con annesse devastanti conseguenze. Il termine “consumare” si applica ai temi della fede, della morale e della verità; il “conservare” si applica alla propria personalità, alla propria persona e ai propri istinti.

Conservare. Ci si conserva per quel che si è, come se fossimo in uno stato di perfezione raggiunta da non dover minimamente toccare. Il cambiamento quindi, anche dal peccato alla grazia, dall’errore alla verità, dall’eresia all’ortodossia, è aborrito perché, si pensa, significherebbe un tradimento della propria persona e della propria istintività che, erroneamente, viene confusa con la sincerità e la verità. Ci si conserva nel corpo e nella salute, ritardando (esasperandolo) il più possibile il momento della morte. A sessanta, settanta e ottant’anni si pretende di essere ancora ventenni: ci si imbottisce di medicinali, si ricorre continuamente a operazioni chirurgiche e di lifting, nella ridicola illusione di fregare il calendario, la natura e il prossimo.

Consumare. Si consuma la fede, diluendola nel mare della modernità. La si considera un prodotto di uso e, appunto, consumo. Così che se non è più alla moda, se non piace più, la si rifiuta o, peggio, la si modifica, modellandola sulle mode del momento o sui propri gusti personali. Si consuma la vita, pretendendo da essa, come fosse un distributore automatico di emozioni, momenti di felicità. Incapaci di considerare e quindi accettare il dolore, si forza la vita e la natura alla ricerca del successo, dello sballo, dell’eternità. Diseducati a guardare in alto, cerchiamo l’infinito nelle cose finite, tradendo noi stessi e fallendo miseramente le nostre sincere e veraci aspettative.

Il punto è che le cose stanno esattamente all’opposto. La fede, la verità e la vita vanno, gelosamente, conservate. Come tutte le cose che non ci diamo da noi stessi, ma che riceviamo, come dono gratuito, e che dobbiamo difendere con tutte le nostre forze. Siamo noi, invece, che ci dobbiamo consumare, spendere, per quello che si deve conservare. Non la fede e la verità vanno consumate per conservare noi stessi, ma noi stessi dobbiamo consumarci per conservare la fede e la verità.

Siamo come candele, come gli antichi ceri nelle chiese, prima che venissero miseramente sostituiti con le novità dell’elettricità. La natura delle candele è la cera, non il legno, e la loro vocazione è illuminare, testimoniare una, anche se labile, presenza. La candela per essere quello che è, senza rinnegare la propria natura e la propria vocazione, non può far altro che consumarsi. Se si conserva è inutile, è morta, tradisce sé stessa. Per consumarsi deve sapere e accettare di essere di cera. Accettare che assolvere alla propria missione - qualsiasi essa sia – significa consumarsi, portarsi a morire. Se da pagani quali siamo, non avessimo paura della morte, capiremmo e seguiremmo quanto dice Gesù Cristo: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” [Gv 15,13]

L’amore è la cera che rimane di una fiamma che ha acceso e consumato una candela e la luce che ha illuminato le tenebre intorno ad essa.

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