venerdì 18 ottobre 2013

Mi permetto, non so con quale autorità, di rispondere a Francesco Colafemmina. L’autorità, forse, mi viene dal fatto che ho iniziato a seguirlo e ho trovato nei suoi post e nella sua vena polemica e critica una sana e necessaria ancora cui aggrapparmi nei momenti di sbando che la Chiesa vive oggi. Da oggi so che potrò contare meno su di lui. Scelta legittima, ci mancherebbe. Ma dispiace che, decidendo in questo senso, decida anche di lanciare più o meno velati attacchi a chi, fino a ieri, condivideva la stessa battaglia e gli stessi mezzi. In una guerra non ci sono solo le prime linee e quindi è legittimo e necessario che ci siano anche altri modi per stare in guerra. La battaglia è sempre la stessa, ma non capisco l’utilità di rimproverare chi rimane sul fronte. Anche perché la critica e il rimprovero, somigliano tanto – troppo – agli slogan propinatici addosso da chi quella battaglia non l’ha condivisa, non la condivide e, probabilmente, non ha nemmeno intenzione di farlo.

Nel merito, mi permetto di rispondere a qualche punto perché chiamato in causa. Certamente non nelle intenzioni dell’Autore, ma in quanto Egli ha scritto mi ci ritrovo molto. E mi permetto di rispondere perché Colafemmina e il suo blog, come detto, per me sono stati fondamentali (per la mia maturazione e preparazione) e, cambiata la strategia di quel blog mi sento un po’ disorientato. Non essendo un burattino nelle mani di qualche blogger più titolato di me, e condividendo la stessa battaglia, se quello che per me era un riferimento prende determinate decisioni, con tutta l’onesta intellettuale del caso, mi domando se non sia io a sbagliare a non seguirlo. Tanto più che è espressamente Lui a lamentarlo.

Egli scrive che siamo “troppo interessati al consenso intellettuale, al miraggio di restaurare l’unica vera e autentica fede di cui vi ritenete portatori”. Un pugno allo stomaco fa meno male. Io me ne frego del consenso intellettuale (che tra l’altro non credo scenda su chi sposa determinate posizioni). Ma la cosa più grave è che dobbiamo domandarci: la fede cattolica, nella Chiesa cattolica, è da restaurare sì o no? Fino a ieri mi sembrava che anche Francesco Colafemmina pensasse di sì. Io lo penso tuttora. E se mi batto per questo non è per presunzione, ma per fedeltà e onestà. La fede che reputo vera e autentica non è la mia, ma l’ho ricevuta. E come tale sono chiamato a trasmetterla. Punto. Troppo spesso nella Chiesa mi sembra che questa fedele trasmissione non ci sia. Punto.

Colafemmina mi (e ci) invita a imparare ad “essere flessibili, a saper ancora gioire delle cose belle che ci circondano, a non leggere ogni gesto o parola del Papa come una condanna (che avete la coda di paglia?), ma a saper elargire fede e bellezza, amore per la liturgia tradizionale, per la dottrina e la storia della Chiesa non come attempati parrucconi, ma come vitali cavalieri che galoppano con vigore in tempi difficili, ma non si arrestano a strologare sul nulla”. Ma la flessibilità è cedere su quanto si crede? Ma essere tradizionalisti (per quanto il termine mi sta stretto, perché io sono cattolico e basta) significa essere tristi? Notare e lamentare delle anomalie (eufemismo) è da piagnoni? Quando non abbiamo gioito o annunciato le cose belle della fede cattolica? Il lamentare il suo tradimento è anche questo: pretendere che la fede (e la liturgia sua espressione) vengano rispettate. E lo pretendo perché so quanto sono belle e quanta gioia procurano. Cosa farà Colafemmina quando il Sommo Pontefice abrogherà il Summorum Pontificum, magari per istituire il Summorum Kikianum? Anche lì, con le lacrime agli occhi di commozione, diremo quanto tutto ciò che ci circonda è bello? Ma se ciò che è bello ci viene tolto che si fa? La fede non la perdiamo certo, ma qualche legittima domanda ce la poniamo. Così come mi pongo la domanda se sia più virile e vitale galoppare (o illudersi di farlo) o resistere al proprio posto. Perché di questi tempi è già un successo non crollare. Galoppare magari viene dopo. Galoppare senza resistere credo sia un suicidio. Tragico. Se poi la Dottrina della Chiesa e la liturgia sono il nulla, perché di questo parliamo, ce lo si dica. Continueremo a farlo perché non cerchiamo il consenso, ma almeno sappiamo cosa si pensa di quello che facciamo.

“Se solo vi applicaste un po’ nelle vostre parrocchie, nelle vostre amicizie, con i vostri amici sacerdoti, in attività capaci di coniugare sapienza teologica e carità pastorale, dareste davvero un enorme contributo al movimento cosiddetto tradizionale. E invece lo stato riducendo ad un covo di vipere, di isterie collettive e di mummificate alienazioni”. Applicarsi nelle parrocchie? Come se la tua parrocchia è in mano a una setta che fa della dottrina cattolica un supermercato dal quale prendere solo quel che piace e della liturgia un banco di sperimentazioni palesemente vomitevoli? Come fai se tu, giovane ragazzo impegnato in parrocchia, ricevi le preoccupazioni del tuo parroco che è stato chiamato dal vescovo, il quale gli ha lamentato l’incongruenza di quello che scrivi sul tuo blog e la tua presenza in quella parrocchia? Come fai? È da vili scudieri andarsene? È da gagliardi cavalieri rimanere a combattere non so quale battaglia posto di fronte all’alternativa di disubbidire alla tua coscienza o disubbidire all’autorità del tuo vescovo? Se le soluzioni non sono cattoliche, e non lo sono, molli. Ma non per viltà, ma con la maturità di non andare a chiuderti in un covo, ma di prendere una decisione sana e che non sempre, ipso facto, produce un evento piacevole e utile alla causa.

La rotta non l’abbiamo persa. La fede, non so per quale grazia, ce l’abbiamo ancora. Ma siccome non siamo così presuntuosi e bigotti come ci dipingono, speriamo, cerchiamo, chiediamo e imploriamo che chi di dovere ci guidi. E chiediamo umilmente, non solo che non ci abbandoni, ma che almeno non ci dia indicazioni sbagliate.

Mi si perdoni, se possibile, lo sfogo.

Daniele

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