lunedì 18 novembre 2013

Ancora un'altra interessante pagina di Dietrich Von Hildebrand, questa volta su la falsa sincerità. Ed è importante e utile leggere queste parole perché vanno anche a sfiorare e illuminare uno dei tanti aspetti che riguardano il rapporto uomo-Dio nella liturgia. Parole utili e per quanto sembrino inattuali, proprio perché tra quando sono state scritte e oggi, sono passati decenni di spregio e umiliazione di quella che è la liturgia cattolica.

“Inoltre vi è ogni ragione per celare i propri peccati agli occhi della società. Noi dobbiamo sentirci almeno in dovere di non dare un cattivo esempio, di non suscitare scandalo. Ciò non vale nel caso di un Tartufe — il fur­fante che giuoca ipocritamente la parte della persona vir­tuosa onde ingannare gli altri che si sentono attratti dalla sua apparente virtù. Questo è il caso-limite della insin­cerità. Ma non si può vedere l’opposto di tale insincerità nel peccatore impudende che non si cura di nascondere la propria peccaminosità. L’opposto lo vedremmo piuttosto nell’uomo virtuoso che per modestia nasconde le proprie virtù.

Un’altra concezione falsa della sincerità, oggi assai diffusa, riguarda l’esigenza che il proprio contegno este­riore deve corrispondere interamente ai propri sentimenti e alla disposizione del proprio animo. Così una persona che si comporta in un modo cortese non corrispondente al suo vero sentire viene ritenuta insincera. Si può parlare di una certa insincerità e falsità se una persona fa come se fosse profondamente commossa, fuor di sé dalla gioia, oppure indignata, mentre non sente nulla di simile. Sa­rebbe però certamente sbagliato lasciare che il proprio comportamento di fronte ad altre persone sia determinato esclusivamente dai propri sentimenti del momento. Le no­stre espressioni debbono piuttosto corrispondere a ciò che il nostro atteggiamento deve essere. Quale pur sia il no­stro sentire, con gli altri dobbiamo dimostrarci sempre cortesi e riguardosi. Ciò non significa affatto essere insin­ceri, allo stesso modo che non è segno di sincerità essere scortesi e senza riguardi con gli altri perché a noi di loro non importa nulla.

In base a questa concezione falsa della sincerità, si fa del lasciarsi andare e dell’indulgere a sé stessi una norma di vita. Viene escluso quell’abbellimento della vita che solo il rispetto di certe forme rende possibile ignorando il significato morale e la funzione pedagogica che tali forme hanno nella vita consociata. Proprio in ciò che distingue la persona ben educata si vede un segno di in­sincerità. Conformemente a questa concezione della sin­cerità un tipo grossolano, scortese e incapace di dominarsi sarebbe l’ideale dell’uomo sincero.

Questa pseudo-sincerità si presenta in una forma par­ticolarmente grottesca quando tocca le relazioni dell’uomo con Dio. Quanto spesso oggi si sente dire, riguardo la liturgia: « Perché recitare il Confiteor se non sento nes­suna contrizione? » « Perchè debbo riconoscere i miei peccati se non li sento come tali? » « Come posso pro­nunciare il De profundis clamavi ad Te, Domine quando il mio animo è invece lieto? ». E così via.

La risposta è che le preghiere a Dio corrispondono ad una realtà oggettiva, non ad un accidentale stato d’ani­mo. So che sono un peccatore. Così dovrei sentirmi con­trito. Questa realtà oggettiva è la base delle parole delle preghiere con cui ci si rivolge a Dio. E l’essenza della liturgia è la corrispondenza delle preghiere alla situazione oggettiva dell’uomo in genere di fronte a Dio, quindi a ciò che dovrei sentire in questo confronto con Dio. Qui la scelta delle parole non dovrebbe dipendere dai miei sentimenti del momento. Le parole sono piene di senso * perché corrispondono alla realtà della mia situazione e a ciò che dovrei sentire: sono l’espressione oggettiva di atteggiamenti che dovrei desiderare di avere, di atteggia­menti che dovrebbero dar forma al mio essere. Così è prova non di sincerità ma di una estrema pseudo-sincerità disconoscere il significato di ogni preghiera (e di ogni atto cultuale in genere), ricusarsi orgogliosamente di pro­nunciare parole non corrispondenti al proprio momentaneo stato d’animo. Col fare di questo stato d’animo casuale l’unica norma valida si dimostra un egocentrismo e una spavalderia meschina e ridicola.

Questo errore ha anche una portata più vasta. Con la liturgia si partecipa alle preghiere di Cristo e della Sua Chiesa. Le preghiere mirano a formare la propria anima e non già ad essere l’espressione della limitatezza dell’in­dividuo. Inoltre sono preghiere dette nello spirito di una comunione con tutti i nostri fratelli. Così io posso pre­gare avendo la coscienza che molti esseri soffrono e sono perseguitati; anche se mi sento pieno di gioia, so che la terra è una valle di lacrime. Vi è dunque ogni motivo per recitare il De Profundis anche quando provo una gioia riconoscente per un grande beneficio ricevuto, per recitare il salmo di glorificazione e di ringraziamento in momenti in cui sono duramente provato. Proprio molti di coloro che cercano di valorizzare la liturgia di contro alla « pre­ghiera privata », perché questa non realizzerebbe una co­munione fra i fedeli, sembrano non cogliere l’accennato senso profondo della preghiera liturgica.”

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