sabato 15 febbraio 2014

Forma Ordinaria del Rito Romano

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli.
Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio”. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio.
Avete inteso che fu detto: “Non commetterai adulterio”. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore.
Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: non giurate affatto. Sia invece il vostro parlare: “sì, sì”, “no, no”; il di più viene dal Maligno».
[Mt 5, 20-22a.27-28.33-34a.37]

 
Forma Straordinaria del Rito Romano

«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna; quello che è giusto ve lo darò. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi? Gli risposero: Perché nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna.
Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e dà loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero un denaro per ciascuno. Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te. Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi».
[Mt 20, 1-16]





Sia nella forma cosiddetta Ordinaria, che in quella Straordinaria, del Rito Romano, la liturgia propone il tema della giustizia. L’anelito alla giustizia è insita nel cuore di ogni uomo e fuoriesce, purtroppo, soprattutto quando ad essere calpestati sono i propri (veri o presunti) interessi. Difficilmente ci scaldiamo e ci spendiamo se i diritti calpestati sono quelli di qualcuno che ci sta accanto. Altrettanto difficilmente, insieme ai diritti, riconosciamo di avere dei doveri. Nei confronti del prossimo, ma soprattutto nei confronti di Dio. La parabola proposta dalla liturgia della forma Straordinaria mostra come il Padreterno chiami tutti alla gloria del regno dei cieli. E che non c’è un bene più grande di esso. Se ad alcuni che già lavorano nella sua vigna ha promesso come ricompensa un denaro, il regno dei cieli appunto, che ricompensa dovrebbe dare a chi ha lavorato per meno tempo? C’è un dono parziale che Dio può dare? Una salvezza a tempo indeterminato forse? Il punto è che l’amore di Dio non conosce mezze misure, o dona tutto o non dona niente. L’amore che Dio ha per gli uomini è qualcosa di così grande ed infinito che nella sua grandezza non può essere frammentato. La giustizia umana in questo senso si discosta molto da quella di Dio. Potrebbero sorgere, e sorgono, le domande in questo senso: “ma allora che mi conviene spaccarmi la schiena nel lavorare nella vigna del Signore se poi tanto basta lavorarci un poco per essere salvati?”. Le questioni, importanti, sono due. Primo: non sappiamo quando il nostro lavoro terminerà, ergo quando moriremo, quindi non possiamo star lì a far di conto, come i farisei, vivendo una vita dissoluta e spensierata, nella certezza che poi il momento per il ravvedimento ci verrà concesso. E, secondo, se ci lamentiamo dell’apparente ingiustizia rivoltaci, significa che non abbiamo capito nulla del valore dell’essere cattolici. Innanzitutto lavorare (anche faticosamente) per il Signore e nella sua vigna è certamente meglio e più dignitoso che oziare presso il miglior castello del principe di questo mondo. Se invidiamo chi si converte all’ultimo è perché nel nostro intimo desidereremmo condurre una vita lontana da Cristo; quindi non  Lo amiamo. E poi ignoriamo il mistero che soggiace al fatto che il nostro lavorare nella vigna da più tempo è necessario e propedeutico perché qualche uomo all’ultima ora si converta e creda in Gesù Cristo. L’invidia e la gelosia di chi sta lì a trovare il modo di fregare il Padreterno evitando le prescrizioni del Decalogo, deve lasciare il posto alla paziente carità di lavorare perché i nostri fratelli si convertano e, quindi, si salvino. Non servono convegni diocesani, consigli pastorali e documenti di una delle inutili conferenze episcopali per salvare l’uomo. Lavorare nella vigna del Signore (commovente il ricordo delle parole del Papa il giorno della sua elezione il 19 aprile 2005) significa innanzitutto pregare (e farlo in maniera degna, non improvvisata). Poi significa ognuno occuparsi della propria mansione. Non tutti devono difendere la vite, non tutti sono potatori, non tutti sono dei vendemmiatori, eccetera. Ognuno ha il suo e deve farlo rispondendo alla propria vocazione.

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