mercoledì 8 ottobre 2014

Vedete, le persone credono che essere uno scrittore significhi solo scrivere. L’atto della scrittura. Non è così, perché non si esaurisce tutto lì: l’atto della scrittura è piuttosto una conseguenza dell’essere uno scrittore. Sapete, uno scrittore è una persona molto particolare, uno strano animale davvero. È in effetti una curiosa combinazione di intuito, immaginazione, intelletto, sensibilità, e vede ciò che gli altri non vedono, sente come gli altri non sentono, pensa come gli altri non pensano, e la sua intelligenza è di tipo così diverso da quella usuale, talmente peculiare direi, da non poter essere misurata attraverso i test di intelligenza cui vengono sottoposte le altre persone. La peculiarità di questo strano animale è tale che non di rado uno scrittore è in grado di scrivere di cose che non comprende completamente. […]
Il motivo per cui lo scrittore è capace di tutto ciò, credo, è che la vera scuola dello scrittore è la vita stessa, a incominciare dalla propria. E, dato che il suo lavoro principale è osservare la vita, a incominciare dalla propria, non separa mai la vita personale dal suo lavoro. Non stacca mai. Tutto ciò che fa, prova, pensa, vede, comprende, entra nella sua scrittura come un liquido versato attraverso un imbuto in una bottiglia. Perfino quando dorme e sogna, perfino quando ama e fa l’amore. […]
Eppure, malgrado tutto questo, malgrado tutti i difetti e tutte le colpe che ho riconosciuto, la maggior parte di noi è e rimane devota alla ricerca della verità, alla causa della libertà, al sogno di un mondo migliore. Perché? Per una ragione di fondo che, nella sostanza, è squisitamente pratica e anche un poco egoista. Eccola. Senza la ricerca della verità noi scrittori non possiamo funzionare perché ci viene a mancare l’ingrediente principale della nostra cucina: il buon cibo che preserva la vita. Senza il sogno di un mondo migliore non possiamo operare perché perdiamo l’obiettivo morale, la spinta creativa. Senza la libertà rinunciamo alla nostra indipendenza di giudizio e – di conseguenza – tagliamo le ali della nostra fantasia, castriamo i genitali della nostra produttività, chiudiamo le porte delle nostre scoperte. E non abbiamo più idee. Noi lavoriamo sulle idee, con le idee, come il cuoco lavora col sale e con l’olio: scrivere significa anzitutto pensare. E senza libertà non possiamo pensare. Non possiamo lavorare. I nemici della libertà sono i nostri primi nemici. Ed essi lo sanno tanto bene che, quando la libertà viene assassinata, noi scrittori siamo i primi a essere imprigionati o esiliati o impiccati. (Ammeno di diventare, come ho detto, mercenari e mercanti di parole e cortigiani. Cioè traditori di noi stessi, del nostro pensiero). Insomma, e per farla breve: noi siamo costretti a essere moralisti. Anche quando siamo di natura immorali. Siamo obbligati a inseguire i sogni. Anche quando siamo cinici. Siamo forzati a predicare un mondo migliore. Anche quando sappiamo che è un’impresa disperata giacché – come dice il proverbio – il mondo cambia e resta come prima. Non abbiamo scelta. Non l’abbiamo perché quelle virtù che spesso non meritiamo, di cui spesso non siamo capaci, sono per noi una questione di sopravvivenza mentale. E questa mancanza di scelta, questa sopravvivenza, sono la migliore garanzia che offriamo agli altri. Perfino quando siamo carogne, e invidiosi, gelosi, presuntuosi, maligni, ingiusti, cretini, eccetera. […]
Concluderò dunque con una domanda e con una risposta. La domanda è: ma allora, che cosa vi rimane da fare, a voi scrittori, fuorché scrivere? La risposta è: quello che abbiamo sempre fatto, quello che sappiamo fare, quello per cui veniamo al mondo e viviamo. Raccontare la vita e quindi la verità senza paura, senza cedere mai. Anticipare gli eventi, provocarli, partecipare alla storia denunciando, condannando, predicando. Essere scomodi, avere il coraggio d’essere scomodi, senza curarsi d’essere ricattati, intimiditi, puniti. Intervenire, sempre, come una zanzara che morde e che pizzica. Offrire le nostre idee come si offre un buon cibo, un cibo sano, non un cibo avvelenato, funghi che sembrano belli però mandano all’ospedale. Stare dalla parte dell’umanità, suggerire i cambiamenti, innamorarci dei buoni cambiamenti, influenzare un futuro che sia un futuro migliore del presente. E quando questo futuro arriva, quando i cambiamenti sono avvenuti per essere subito e inevitabilmente corrotti da nuovi crimini, nuovi oppressori, ricominciare daccapo: denunciando daccapo, condannando daccapo, predicando daccapo, qualunque sia il colore del nuovo regime, del nuovo Napoleone, del nuovo Hitler, del nuovo Mussolini, del nuovo Stalin, del nuovo Khomeini, del nuovo bugiardo o assassino. E così mettere in moto un altro cambiamento: in un processo senza fine, in un ruolo di eterni rompiscatole. E pazienza se perdiamo. Pazienza se finiamo impiccati.

[O. Fallaci - Il mio cuore è più stanco della mia voce]

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