Vedete, le persone credono che essere uno scrittore significhi solo
scrivere. L’atto della scrittura. Non è così, perché non si esaurisce tutto lì:
l’atto della scrittura è piuttosto una conseguenza dell’essere uno scrittore.
Sapete, uno scrittore è una persona molto particolare, uno strano animale
davvero. È in effetti una curiosa combinazione di intuito, immaginazione,
intelletto, sensibilità, e vede ciò che gli altri non vedono, sente come gli
altri non sentono, pensa come gli altri non pensano, e la sua intelligenza è di
tipo così diverso da quella usuale, talmente peculiare direi, da non poter
essere misurata attraverso i test di intelligenza cui vengono sottoposte le
altre persone. La peculiarità di questo strano animale è tale che non di rado
uno scrittore è in grado di scrivere di cose che non comprende completamente.
[…]
Il motivo per cui lo scrittore è capace di tutto ciò, credo, è che la
vera scuola dello scrittore è la vita stessa, a incominciare dalla propria. E,
dato che il suo lavoro principale è osservare la vita, a incominciare dalla
propria, non separa mai la vita personale dal suo lavoro. Non stacca mai. Tutto
ciò che fa, prova, pensa, vede, comprende, entra nella sua scrittura come un
liquido versato attraverso un imbuto in una bottiglia. Perfino quando dorme e
sogna, perfino quando ama e fa l’amore. […]
Eppure, malgrado tutto questo, malgrado tutti i difetti e tutte le
colpe che ho riconosciuto, la maggior parte di noi è e rimane devota alla
ricerca della verità, alla causa della libertà, al sogno di un mondo migliore.
Perché? Per una ragione di fondo che, nella sostanza, è squisitamente pratica e
anche un poco egoista. Eccola. Senza la ricerca della verità noi scrittori non
possiamo funzionare perché ci viene a mancare l’ingrediente principale della
nostra cucina: il buon cibo che preserva la vita. Senza il sogno di un mondo
migliore non possiamo operare perché perdiamo l’obiettivo morale, la spinta
creativa. Senza la libertà rinunciamo alla nostra indipendenza di giudizio e –
di conseguenza – tagliamo le ali della nostra fantasia, castriamo i genitali
della nostra produttività, chiudiamo le porte delle nostre scoperte. E non
abbiamo più idee. Noi lavoriamo sulle idee, con le idee, come il cuoco lavora
col sale e con l’olio: scrivere significa anzitutto pensare. E senza libertà
non possiamo pensare. Non possiamo lavorare. I nemici della libertà sono i
nostri primi nemici. Ed essi lo sanno tanto bene che, quando la libertà viene
assassinata, noi scrittori siamo i primi a essere imprigionati o esiliati o
impiccati. (Ammeno di diventare, come ho detto, mercenari e mercanti di parole
e cortigiani. Cioè traditori di noi stessi, del nostro pensiero). Insomma, e
per farla breve: noi siamo costretti a essere moralisti. Anche quando siamo di
natura immorali. Siamo obbligati a inseguire i sogni. Anche quando siamo
cinici. Siamo forzati a predicare un mondo migliore. Anche quando sappiamo che
è un’impresa disperata giacché – come dice il proverbio – il mondo cambia e
resta come prima. Non abbiamo scelta. Non l’abbiamo perché quelle virtù che
spesso non meritiamo, di cui spesso non siamo capaci, sono per noi una
questione di sopravvivenza mentale. E questa mancanza di scelta, questa
sopravvivenza, sono la migliore garanzia che offriamo agli altri. Perfino quando
siamo carogne, e invidiosi, gelosi, presuntuosi, maligni, ingiusti, cretini,
eccetera. […]
Concluderò dunque con una domanda e con una risposta. La domanda è: ma
allora, che cosa vi rimane da fare, a voi scrittori, fuorché scrivere? La
risposta è: quello che abbiamo sempre fatto, quello che sappiamo fare, quello
per cui veniamo al mondo e viviamo. Raccontare la vita e quindi la verità senza
paura, senza cedere mai. Anticipare gli eventi, provocarli, partecipare alla
storia denunciando, condannando, predicando. Essere scomodi, avere il coraggio
d’essere scomodi, senza curarsi d’essere ricattati, intimiditi, puniti.
Intervenire, sempre, come una zanzara che morde e che pizzica. Offrire le
nostre idee come si offre un buon cibo, un cibo sano, non un cibo avvelenato,
funghi che sembrano belli però mandano all’ospedale. Stare dalla parte
dell’umanità, suggerire i cambiamenti, innamorarci dei buoni cambiamenti,
influenzare un futuro che sia un futuro migliore del presente. E quando questo
futuro arriva, quando i cambiamenti sono avvenuti per essere subito e
inevitabilmente corrotti da nuovi crimini, nuovi oppressori, ricominciare
daccapo: denunciando daccapo, condannando daccapo, predicando daccapo,
qualunque sia il colore del nuovo regime, del nuovo Napoleone, del nuovo
Hitler, del nuovo Mussolini, del nuovo Stalin, del nuovo Khomeini, del nuovo
bugiardo o assassino. E così mettere in moto un altro cambiamento: in un
processo senza fine, in un ruolo di eterni rompiscatole. E pazienza se
perdiamo. Pazienza se finiamo impiccati.
[O. Fallaci - Il mio cuore è più stanco della mia voce]
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